Le profonde trasformazioni in atto unitamente allo sviluppo delle nuove
tecnologie stanno ponendo nuove sfide nella gestione delle risorse
richiedendo il coraggio di innovare.
Il titolo del presente contributo non rappresenta uno slogan quanto una sfida che molte imprese, e le Direzioni Risorse Umane in
particolare, si trovano a dover affrontare.
Ci stiamo riferendo a molteplici processi
che hanno avuto origine in tempi diversi, si sono
manifestati con modalità a volte carsiche a volte
improvvise, hanno avuto e continuano ad avere
impatti crescenti nella gestione delle imprese e nel
modo stesso di rapportarsi delle persone. Senza
avere la pretesa di essere esaustivi, anche per
oggettivi limiti di spazio, riteniamo importante
definire il perimetro ed identificare quelli che
in base alla nostra esperienza ed al confronto
continuo con le aziende clienti rappresentano i
problemi più rilevanti e comunque ineludibili
a tal punto da giustificare il titolo.
Che la forza lavoro non sia più quella classica
del secolo scorso con una rigida ripartizione fra
lavoro subordinato, definito secondo rigide classificazioni contrattuali, ed altre forme è ormai
un dato di fatto a tal punto che oggi si preferisce parlare di workforce ecosystem proprio
per sottolineare la pluralità di fattispecie che
richiedono peraltro una gestione articolata ed
una comunicazione interna che non possono limitarsi solo al rispetto degli aspetti giuslavoristi
e che devono assicurare comunque consenso e
favorire l’engagement. Sempre più drammatico,
come confermato da una recente ricerca della
CDP, sta diventando l’effetto della demografia sul
disallineamento fra domanda ed offerta di lavoro
con un doppio deficit di lavoratori a bassa ed
alta qualifica. Molte imprese cercano di ovviare trattenendo più a lungo possibile, con le soluzioni
più disparate, le risorse professionalizzate con
la conseguenza di avere poi al proprio interno
ben cinque gruppi generazionali: veterani, baby
boomers, generazione X, millennial, generazione
Z, ogni gruppo con valori, esigenze, prospettive diverse, da saper interpretare ed alle quali
rispondere. Per quanto questa classificazione
sia comunemente accettata sarebbe riduttivo
farsi condizionare solo dall’elemento anagrafico,
avendo riscontrato in più di un’occasione che la
forma migliore per segmentare la struttura sia
quella offerta dalle reali attitudini al lavoro che
non coincidono con l’età ma permettono una ridefinizione trasversale della workforce ecosystem,
utile anche per progettare non solo i programmi
di re-skilling e up-skilling (visto che ormai viene comunemente accettato che l’human capital
cresce nella misura in cui la persona acquisisce
e sviluppa nuove skill nel corso della working
life) ma anche per definire piani personalizzati
di sviluppo, retention, di welfare. La radicata
convinzione che fosse inutile investire oltre una
certa età comincia a sgretolarsi a seguito dei
positivi risultati raggiunti in tema di soft skills,
sempre più essenziali per la vitalità dell’impresa.
Ma oltre a trattenere le risorse professionalizzate
si impone l’esigenza di rivedere la politica dei
talenti, superando impostazioni giovanilistiche
e puntando a costruire, mantenere e sviluppare
una talent pipeline attraverso il riconoscimento del potenziale, l’adozione di una coraggiosa
politica di mobilità interna, la valorizzazione
dei contributi ed in generale un’attenta politica tendente a sviluppare l’attrattività dell’azienda
non solo in considerazione della difficoltà a reperire le risorse ma anche per la selettività che
nei processi di recruiting viene manifestata dai
candidati. Continua a stupire molti managers
l’idea che il colloquio finale con il candidato
non si concluda più con la rituale espressione
“Le faremo sapere” ma che sia il più delle volte il
candidato stesso che si congedi rivolgendo questa espressione al rappresentante dell’azienda.
Tornando alle priorità verrebbe da osservare
“nothing new under the sun” (!!!) ma purtroppo anche nelle aziende più strutturate queste
soluzioni vengono portate avanti con fatica,
trovando spesso la resistenza al cambiamento
dei managers di linea legati a egoistiche concezioni gestionali di short term. Non si possono poi
dimenticare le tensioni derivanti dall’adozione
dell’hybrid work. Mentre durante la pandemia
di Covid 19 l’adozione del remote working è stata accettata per far fronte all’emergenza, con
il progressivo ritorno alla situazione quo ante
si sono manifestate e continuano ad emergere
non poche tensioni anche da parte di manager
giovani, a conferma di quanto sopra affermato
in merito alla necessità di non farsi fuorviare
da classificazioni legate all’età anagrafica. La
comunicazione, la creatività, l’innovazione, la
coesione del team, la lealtà, la gestione del feed
back sono i temi più frequentemente sollevati
all’interno di un confronto che finisce spesso
per ridursi al numero dei giorni da riconoscere
per il lavoro in remoto. In realtà dietro questo
atteggiamento si cela una resistenza al cambiamento, una visione tayloristica della forza lavoro, immortalata da Charlot in “Tempi moderni”,
l’incapacità di accettare la smaterializzazione
dei confini spaziali e temporali dell’impresa.
Situazioni nelle quali è importante, in base alla nostra esperienza, sviluppare interventi
che puntino a creare un equilibrio fra il tempo reale ed il tempo virtuale della prestazione
definendo, in funzione sia del contesto in cui
opera l’azienda sia delle attività svolte, quali
persone coinvolgere, quali soluzioni logistiche,
funzionali alla cultura organizzativa, adottare,
quali modalità tecnologiche utilizzare, quali
supporti formativi garantire ai responsabili per
metterli nelle condizioni di gestire anziché subire
questa evoluzione. D’altro canto, si farà sempre
più inevitabile il confronto con le applicazioni
dell’AI e diventerà ancora più urgente identificare le soluzioni migliori per gestire le risorse
senza fermarsi di fronte agli annunci sensazionalistici utilizzati per mettere in evidenza
le ricadute occupazionali di certe applicazioni.
Ma per “reiventare il lavoro” occorre avere un
atteggiamento proactive per cui suggeriamo
di cominciare a segmentare settore per settore
le attività distinguendo quelle che richiedono
sforzo fisico, quelle che si basano sui processi,
quelle che richiedono problem solving, quelle
creative e quelle basate sulle attività relazionali.
Questa analisi dell’as is si rivelerà molto utile
non solo per gestire le ricadute delle applicazioni
ma per il “to be”, per progettare nuove modalità
operative, per testarle, per allocare le risorse,
per poi dare vita a nuovi business model. Un
approccio metodologico che le Direzioni Risorse Umane sono ampiamente titolate a svolgere
promuovendo il confronto con le altre funzioni/
linee di business, svolgendo tangibilmente il
ruolo di business partner e di change agent.
Approccio che richiede però oltre ad un’elevata
curiosità intellettuale anche la capacità di mettersi in gioco, di accettare la sfida del “learn,
unlearn and relearn” di cui essere testimoni
nelle rispettive aziende.