Reinventare il lavoro

Pubblicazione: 18 dicembre 2023 00:00

Le profonde trasformazioni in atto unitamente allo sviluppo delle nuove tecnologie stanno ponendo nuove sfide nella gestione delle risorse richiedendo il coraggio di innovare.

Il titolo del presente contributo non rappresenta uno slogan quanto una sfida che molte imprese, e le Direzioni Risorse Umane in particolare, si trovano a dover affrontare. Ci stiamo riferendo a molteplici processi che hanno avuto origine in tempi diversi, si sono manifestati con modalità a volte carsiche a volte improvvise, hanno avuto e continuano ad avere impatti crescenti nella gestione delle imprese e nel modo stesso di rapportarsi delle persone. Senza avere la pretesa di essere esaustivi, anche per oggettivi limiti di spazio, riteniamo importante definire il perimetro ed identificare quelli che in base alla nostra esperienza ed al confronto continuo con le aziende clienti rappresentano i problemi più rilevanti e comunque ineludibili a tal punto da giustificare il titolo.

Che la forza lavoro non sia più quella classica del secolo scorso con una rigida ripartizione fra lavoro subordinato, definito secondo rigide classificazioni contrattuali, ed altre forme è ormai un dato di fatto a tal punto che oggi si preferisce parlare di workforce ecosystem proprio per sottolineare la pluralità di fattispecie che richiedono peraltro una gestione articolata ed una comunicazione interna che non possono limitarsi solo al rispetto degli aspetti giuslavoristi e che devono assicurare comunque consenso e favorire l’engagement. Sempre più drammatico, come confermato da una recente ricerca della CDP, sta diventando l’effetto della demografia sul disallineamento fra domanda ed offerta di lavoro con un doppio deficit di lavoratori a bassa ed alta qualifica. Molte imprese cercano di ovviare trattenendo più a lungo possibile, con le soluzioni più disparate, le risorse professionalizzate con la conseguenza di avere poi al proprio interno ben cinque gruppi generazionali: veterani, baby boomers, generazione X, millennial, generazione Z, ogni gruppo con valori, esigenze, prospettive diverse, da saper interpretare ed alle quali rispondere. Per quanto questa classificazione sia comunemente accettata sarebbe riduttivo farsi condizionare solo dall’elemento anagrafico, avendo riscontrato in più di un’occasione che la forma migliore per segmentare la struttura sia quella offerta dalle reali attitudini al lavoro che non coincidono con l’età ma permettono una ridefinizione trasversale della workforce ecosystem, utile anche per progettare non solo i programmi di re-skilling e up-skilling (visto che ormai viene comunemente accettato che l’human capital cresce nella misura in cui la persona acquisisce e sviluppa nuove skill nel corso della working life) ma anche per definire piani personalizzati di sviluppo, retention, di welfare. La radicata convinzione che fosse inutile investire oltre una certa età comincia a sgretolarsi a seguito dei positivi risultati raggiunti in tema di soft skills, sempre più essenziali per la vitalità dell’impresa. Ma oltre a trattenere le risorse professionalizzate si impone l’esigenza di rivedere la politica dei talenti, superando impostazioni giovanilistiche e puntando a costruire, mantenere e sviluppare una talent pipeline attraverso il riconoscimento del potenziale, l’adozione di una coraggiosa politica di mobilità interna, la valorizzazione dei contributi ed in generale un’attenta politica tendente a sviluppare l’attrattività dell’azienda non solo in considerazione della difficoltà a reperire le risorse ma anche per la selettività che nei processi di recruiting viene manifestata dai candidati. Continua a stupire molti managers l’idea che il colloquio finale con il candidato non si concluda più con la rituale espressione “Le faremo sapere” ma che sia il più delle volte il candidato stesso che si congedi rivolgendo questa espressione al rappresentante dell’azienda. Tornando alle priorità verrebbe da osservare “nothing new under the sun” (!!!) ma purtroppo anche nelle aziende più strutturate queste soluzioni vengono portate avanti con fatica, trovando spesso la resistenza al cambiamento dei managers di linea legati a egoistiche concezioni gestionali di short term. Non si possono poi dimenticare le tensioni derivanti dall’adozione dell’hybrid work. Mentre durante la pandemia di Covid 19 l’adozione del remote working è stata accettata per far fronte all’emergenza, con il progressivo ritorno alla situazione quo ante si sono manifestate e continuano ad emergere non poche tensioni anche da parte di manager giovani, a conferma di quanto sopra affermato in merito alla necessità di non farsi fuorviare da classificazioni legate all’età anagrafica. La comunicazione, la creatività, l’innovazione, la coesione del team, la lealtà, la gestione del feed back sono i temi più frequentemente sollevati all’interno di un confronto che finisce spesso per ridursi al numero dei giorni da riconoscere per il lavoro in remoto. In realtà dietro questo atteggiamento si cela una resistenza al cambiamento, una visione tayloristica della forza lavoro, immortalata da Charlot in “Tempi moderni”, l’incapacità di accettare la smaterializzazione dei confini spaziali e temporali dell’impresa. Situazioni nelle quali è importante, in base alla nostra esperienza, sviluppare interventi che puntino a creare un equilibrio fra il tempo reale ed il tempo virtuale della prestazione definendo, in funzione sia del contesto in cui opera l’azienda sia delle attività svolte, quali persone coinvolgere, quali soluzioni logistiche, funzionali alla cultura organizzativa, adottare, quali modalità tecnologiche utilizzare, quali supporti formativi garantire ai responsabili per metterli nelle condizioni di gestire anziché subire questa evoluzione. D’altro canto, si farà sempre più inevitabile il confronto con le applicazioni dell’AI e diventerà ancora più urgente identificare le soluzioni migliori per gestire le risorse senza fermarsi di fronte agli annunci sensazionalistici utilizzati per mettere in evidenza le ricadute occupazionali di certe applicazioni. Ma per “reiventare il lavoro” occorre avere un atteggiamento proactive per cui suggeriamo di cominciare a segmentare settore per settore le attività distinguendo quelle che richiedono sforzo fisico, quelle che si basano sui processi, quelle che richiedono problem solving, quelle creative e quelle basate sulle attività relazionali. Questa analisi dell’as is si rivelerà molto utile non solo per gestire le ricadute delle applicazioni ma per il “to be”, per progettare nuove modalità operative, per testarle, per allocare le risorse, per poi dare vita a nuovi business model. Un approccio metodologico che le Direzioni Risorse Umane sono ampiamente titolate a svolgere promuovendo il confronto con le altre funzioni/ linee di business, svolgendo tangibilmente il ruolo di business partner e di change agent. Approccio che richiede però oltre ad un’elevata curiosità intellettuale anche la capacità di mettersi in gioco, di accettare la sfida del “learn, unlearn and relearn” di cui essere testimoni nelle rispettive aziende.