Next normal o new normal?
di Antonio Angioni
Auspicando un superamento della pandemia grazie alla campagna vaccinale in corso, ci si interroga su quale sarà il nuovo assetto nelle aziende, e non solo, dopo l’estate. Il lavoro da remoto è stato possibile solo per determinate mansioni, fermo restando che la prolungata distanza dall’ufficio richiede un periodo di “compensazione” per recuperare la piena operatività. La vera sfida a livello gestionale sarà abituarsi ad un “modello ibrido”
Parliamo di: #Covid-19 #New normal #Silos Syndrome #Smart working
Molti si interrogano se tornerà tutto come prima, nel qual caso sarebbe appropriato parlare di next normal o se invece si andrà verso un contesto completamente diverso per cui sarebbe preferibile parlare di new normal. Considerando in realtà gli elementi che sono disponibili e cogliendo alcune tendenze che emergono in molte aziende, non esitiamo a poter anticipare che stiamo andando verso un contesto decisamente diverso e che si stia aprendo un ciclo decisamente nuovo.
La pandemia Covid-19, dalla quale stiamo faticosamente uscendo, finirà per essere utilizzata come una nuova discriminante temporale dal momento che ha avuto un effetto di discontinuità di proporzioni ciclopiche, per la decodificazione delle quali occorrerà tempo.
Per certi versi, rimanendo sempre nell’ambito delle citazioni omeriche, sarebbe opportuno ricordare l’episodio di Eolo, che per assicurare ad Ulisse un tranquillo ritorno ad Itaca, gli regalò un otre che conteneva tutti venti sfavorevoli raccomandandogli però di non aprirla finché non fosse ritornato in patria. Tutti conosciamo l’epilogo, che potrebbe essere utilizzato per caratterizzare la fase che stiamo vivendo, che vede appunto l’esplosione di tanti processi e di novità sulle quali saremo chiamati a misurarci da ora in poi.
Solo a distanza non è tutto rose e fiori
Partiamo dalla dematerializzazione del lavoro che ha investito molte, anche se non tutte (!), posizioni di lavoro. Di tale processo, frettolosamente ed impropriamente denominato con l’espressione smart working (anche se nessuno ha potuto scegliere dove, come e quando lavorare) che cosa resterà? Prima di rispondere è utile prendere in esame diversi aspetti emersi nel corso di questi mesi con il ricorso alla formula del lavoro in remoto. Partiamo intanto dal perimetro, ricordando come questa soluzione, come dimostrato da diverse statistiche, sia stata più diffusa nella grande impresa che nella media e nella piccola impresa, più nei servizi che nella manifattura, più in certe posizioni che in altre.
Confrontandoci con molti imprenditori e manager abbiamo raccolto diverse indicazioni. Imposta dall’emergenza, questa soluzione ha permesso di scoprire come molti spostamenti potrebbero essere evitati e comodamente sostituiti da riunioni a distanza. Da più parti sono state enfatizzate le conseguenze positive in termini di conciliazione vita-lavoro, di flessibilità. Dietro certe positive dichiarazioni di facciata, abbiamo scoperto però, nel confronto diretto, l’esistenza di dubbi circa la reale produttività, l’efficacia del controllo, la qualità della comunicazione, la gestione dei processi di brainstorming, la sperimentazione del problem solving, la condivisione e lo scambio di conoscenza.
Laddove siamo stati coinvolti anche nel verificare la percezione dei collaboratori in merito al lavoro in remoto, abbiamo verificato come oltre l’apprezzamento per le positive conseguenze in termini di equilibri vita-lavoro, vi fossero perplessità in merito alla mancata e/o ridotta socializzazione, alle difficoltà di lavorare in gruppo, al reale livello di feed back. Se da una parte, in questi ultimi mesi, sono stati realizzati in alcune grandi imprese accordi sindacali che hanno disciplinato il ricorso al lavoro da remoto, è passata in sordina la richiesta avanzata, guarda caso dai giganti della new economy come Google, Facebook, ai propri collaboratori di rientrare nelle sedi durante il mese di giugno, grazie alla vaccinazione di massa.
In una recentissima intervista rilasciata il 31 maggio al “Corriere della sera”, il Ceo di Google, Sundar Pichai, alla domanda se la pandemia avesse cambiato definitivamente il modo di lavorare, ha risposto riportando il tema a livelli realistici dicendo di prevedere che il 60% dei collaboratori avrebbe lavorato negli uffici almeno tre giorni la settimana lasciando la possibilità di lavorare da casa gli altri due giorni, che il 20% si sarebbe trasferito in altri uffici di Google nel mondo e che solo un 20% avrebbe continuato a lavorare stabilmente da remoto.
Molte aziende clienti si stanno chiedendo quali soluzioni adottare, soprattutto a fronte di una ripresa economica che sta già portando a rivedere le previsioni avanzate solo alcune settimane fa e che in molti casi porterebbe a ripristinare l’organizzazione del lavoro precedente la pandemia.
A ognuno la sua ricetta
A nostro avviso non esiste una regola ma occorre valutare caso per caso quale sia il mix corretto fra lavoro in presenza e lavoro in remoto. Valutazione questa che non può prescindere dalla natura del lavoro svolto, dall’esperienza e dalle preferenze stesse dei collaboratori. Non solo, ma occorre anche considerare se esiste la disponibilità a dedicare tempo ed energie per gestire gruppi di persone in remoto, a mantenere un impegno costante nell’assicurare il coinvolgimento di tutti i collaboratori (in presenza e in remoto), ad assicurare un clima positivo. Il rientro, vuoi che sia stabile vuoi che sia caratterizzato dall’alternanza con prestazioni in remoto, potrebbe anche costituire l’opportunità per modificare la routine, ridurre, se non eliminare vecchie e consolidate abitudini e/o atteggiamenti, con particolare riferimento alla silos syndrome.
Senza dimenticare che in alcuni casi emergerà, a causa di una prolungata assenza dal posto di lavoro, la necessità di recuperare il senso della relazione, di superare lo stress da iper-connessione, di affrontare una sorta di “atrofia delle abilità” da neutralizzare con adeguate forme di training e di coaching per permettere alle persone di recuperare la piena operatività.
Ma la vera sfida a livello gestionale sarà quella di abituarsi ad un “modello ibrido”, sicuramente più impegnativo perché richiede un modello di leadership diverso, il riconoscimento di una maggiore autonomia e flessibilità ma soprattutto il passaggio da una valutazione dei collaboratori sulla presenza ad una valutazione sulla qualità effettiva della performance, da un’attenzione sul tempo passato in azienda ad un’attenzione sui risultati conseguiti.
Questo dimostra come uno dei tanti motti utilizzati durante la pandemia, in un’ottica di reciproco incoraggiamento, quale “tutto tornerà come prima” non solo sia smentito dai fatti ma rischia, per chi continua ad utilizzarlo, di diventare un comodo ma pericoloso alibi per non affrontare i nuovi fabbisogni e tornare alle vecchie, rassicuranti abitudini.
14 giugno 2021 – L’Imprenditore