L’organizzazione del lavoro post Covid-19
di Antonio Angioni
Stiamo emergendo, con fatica, dalla pandemia e sarà necessario del tempo per analizzare le conseguenze e gli impatti di una crisi sistemica che non può essere paragonata, sia per le caratteristiche che per la portata, né a quella degli anni Trenta del secolo scorso, né a quella più recente del 2008.
Sebbene vi siano già numerosi codificatori dell’ovvio che si stanno lanciando in previsioni relative all’evoluzione dell’organizzazione del lavoro, noi preferiamo attenerci ai dati che rileviamo dalle aziende e dal confronto continuo con specifiche realtà produttive. Siamo già in grado pertanto di distinguere alcune tendenze che potrebbero consolidarsi nei prossimi mesi.
Sicuramente uno degli effetti più rilevanti della pandemia è stato quello che potremmo definire come la “dematerializzazione del lavoro”, visto che nel giro di un esiguo lasso temporale sono forzatamente e radicalmente mutate le modalità di erogazione di molte attività. Non è stato però un processo uniforme perché al lockdown le imprese sono arrivate in condizioni diverse.
C’erano imprese, soprattutto nel settore dei servizi, che avevano già organizzato, dopo fasi di sperimentazione, il ricorso al lavoro in remoto per cui non è stato particolarmente difficile generalizzare questa formula. Per altre imprese, per esempio del settore impiantistico, che avevano sviluppato il ricorso a questa formula integrandolo con altre soluzioni fornite dall’AI e dall’IoT, è stato agevole estendere questa modalità. Più difficile e complessa è stata invece l’adozione della soluzione del lavoro in remoto per quelle imprese che non avevano ancora fatto ricorso o sperimentato questa modalità o ne avevano fatto un uso saltuario, con particolare riferimento alle piccole e medie.
Adesso che la situazione sembra tornare alla normalità ci si interroga se mantenere e in quale misura tale formula. Non è nostra intenzione entrare nel dettaglio delle numerose implicazioni economiche (sell city by country), sociali (social distance/social differences), tecniche (uniformità di accesso alle reti), giuridiche (normativa da applicare), ma limitarci solo agli aspetti gestionali anche se riteniamo doveroso fare una precisazione.
Sebbene l’espressione abbia conosciuto un grande successo è bene ricordare che quanto è stato realizzato non è smart working per il semplice motivo che fare smart working significa avere la possibilità, e i mezzi, per lavorare in luoghi diversi dall’ufficio e non necessariamente a casa propria. Lo smart working è fondato su un presupposto assente in questi mesi: la libertà di decidere dove e quando lavorare.
Soffermiamoci, invece, sulle implicazioni gestionali. Prima di prendere decisioni per il futuro è importante verificare in ciascuna realtà le effettive conseguenze in termini di: funzionalità, produttività, rispetto degli obiettivi ma soprattutto di relazionalità.
La priorità di resistere in condizioni difficilissime ha fatto passare in secondo piano alcuni aspetti che stanno, al di là della retorica ufficiale, affiorando in queste settimane. Molti manager e middle manager stanno esprimendo, in forme diverse, il disagio e la mancanza di preparazione per questa modalità di gestione che implica l’adozione di un business model completamente diverso ma soprattutto il passaggio da una cultura focalizzata sul controllo a una cultura orientata ai risultati.
Il cambio di una cultura non si improvvisa anche se la fase di emergenza ha scatenato un processo che, se governato, potrebbe migliorare l’organizzazione del lavoro. Insistiamo sul concetto del governo perché le implicazioni gestionali sono molteplici ed esigono un approccio, una disponibilità al cambiamento, una flessibilità non facili da realizzare e da coniugare con i problemi legati al recupero e al consolidamento che sono le priorità dell’oggi. Ma proprio perché vediamo come l’impegno e le energie siano concentrate nel cercare di risollevare l’attività di molte aziende, riteniamo utile richiamare l’attenzione anche su altre variabili, perché il ricorso al remote working, anche se ha polarizzato l’attenzione, non è l’unica formula relativa all’organizzazione del lavoro, ad essere messa in discussione.
Il rifinanziamento da parte del ministero dello Sviluppo economico degli investimenti relativi la digitalizzazione offre l’opportunità che molte aziende stanno valutando di intraprendere o, nei casi in cui fosse già stata intrapresa, di sviluppare la digitalizzazione. In diverse realtà ci si sta interrogando su quali applicazioni orientarsi, sui tempi di implementazione di una manifattura additiva o delle applicazioni di arricchimento delle percezioni sensoriali. In questo ultimo caso le informazioni rese disponibili agli operatori (tramite occhiali, tablet, smartphone, smartwatch) rendono molto più veloci i processi di attività caratterizzate da un basso grado di ripetitività e/o da un alto grado di complessità (manutenzione, attrezzaggio, picking).
La possibilità di massimizzare l’utilizzo di asset produttivi sta orientando a ripensare l’organizzazione del lavoro, la sincronizzazione delle attività produttive e logistiche ma soprattutto sta portando le aziende a scoprire, o meglio a riscoprire, una personalizzazione dei prodotti e dei servizi.
In più di un caso ci è capitato in queste settimane di sentire messa in discussione la stessa supply chain e la scelta fatta in passato di una delocalizzazione di cui sono stati sofferti nei mesi passati i limiti. Non è da escludere che già nel corso dell’anno corrente il processo di reshoring possa riservare delle positive soprese. Ma quanto in termini di volumi produttivi rientrerà, rientrerà in un contesto aziendale diverso, più reattivo con turni più flessibili come quelli sperimentati durante la pandemia che hanno permesso alle aziende dotate del codice Ateco di continuare a produrre magari per far fronte a volumi superiori a quelli previsti.
Di tutte le retoriche affermazioni di questi mesi solo una ci sembra condivisibile, ossia che “niente sarà come prima” e in questa fase di restart che stiamo vivendo appare chiara la tendenza che la nuova organizzazione del lavoro dovrà forzatamente rispondere ai criteri dell’agility, la nuova capability per affrontare una fase in cui l’incertezza è l’unica certezza.
Come ricordava Peter Drucker, però, il pericolo maggiore in tempi di turbolenza non è la turbolenza in sé, ma affrontarla con la logica del passato.
15 luglio 2020 – L’Imprenditore