La metodologia delle 3E
di Antonio Angioni
Dopo aver svolto un ruolo essenziale nella fase acuta dell’emergenza quanti sono chiamati a gestire le Risorse Umane si trovano oggi a dover far fronte a molteplici esigenze. Di tutte le stucchevoli e retoriche affermazioni di questi mesi solo una ci sembra condivisibile ossia che niente sarà come prima ed in questa fase di restart che stiamo vivendo appare chiara la tendenza che la nuova organizzazione del lavoro dovrà forzatamente rispondere ai criteri dell’agility, la nuova capability per affrontare una fase in cui l’incertezza è l’unica certezza. Come ricordava P. Drucker, però, ‘il pericolo maggiore in tempi di turbolenza non è la turbolenza in sé ma affrontarla con la logica del passato’, tentazione, umanamente comprensibile, alla quale occorre saper far fronte per gestire le nuove sfide. Sicuramente uno degli effetti più eclatanti della pandemia è stato quello che potremmo definire come la dematerializzazione del lavoro visto che nel giro di un esiguo lasso temporale sono forzatamente e radicalmente mutate le modalità di erogazione di molte prestazioni ed attività anche se nel settore manifatturiero, per esempio, ha coinvolto solo una percentuale dei collaboratori ma non tutti, senza dimenticare che quanto realizzato non può definirsi smart working ma lavoro in remoto. Non si tratta di una sottigliezza terminologica ma di una differenza con rilevanti implicazioni gestionali sulle quali non intendiamo soffermarci in questa occasione.
Molte imprese sono impegnate oggi nel valutare i costi subiti, nel progettare le modalità di recupero ma soprattutto nel verificare l’attualità del business model sinora seguito e nel ricercare eventuali alternative. Per rispondere a questa ricerca è stata studiata, messa a punto e testata in alcune pilot site la metodologia delle 3 E: E come Efficiency, E come Execution, E come Enviroment nella convinzione che queste siano le aree nelle quali intervenire per giungere a rivedere, affinare se non modificare il business model. La metodologia si caratterizza per la modularità, l’essenzialità, l’impostazione. La modularità perché permette un’applicazione coerente con le esigenze e le priorità delle aziende. L’essenzialità perché coglie le aree e le dimensioni critiche. L’impostazione perché privilegia l’adozione di soluzioni studiate e sviluppate originariamente che rimangono nella disponibilità delle aziende. Attivando l’Efficiency si imposta un processo che prende le mosse dalla definizione del valore dell’azienda per rivedere i processi, identificando il flusso, eliminando gli sprechi, privilegiando una logica di push ad una logica di pull, con l’obiettivo di migliorare la redditività aziendale. L’output finale è un modello di controllo delle varianze strutturato con un action plan.
Con l’Execution, invece, si coinvolge l’intero leadership team in una revisione di quelle che sono le quattro dimensioni che costituiscono il framework distintivo di un’azienda: l’Alignment, l’Archietcture, l’Ability e l’Agility al fine di migliorare l’execution che non si esaurisce nella semplice implementazione di un piano ma nello sviluppo di un mindset focalizzato sull’improvement anziché sulla perfezione o sull’eccellenza . L’output finale di questo processo è la costruzione, e quindi la condivisione, di un execution capability profile per acquisire, mantenere e sviluppare a tutti i livelli dell’organizzazione, un approccio sistematico nell’identificare le priorità e nel garantire un livello di disciplina.
Con l’Enviroment si prendono in considerazione, invece, gli aspetti gestionali, relazionali, strutturali che caratterizzano il contesto nel quale opera l’azienda, appunto l’enviroment, non un semplice assessment ma una rivisitazione che permetta di individuare aree di miglioramento e di attivare soluzioni adeguate. Processi produttivi, supply chain (con un eventuale re-shoring, ipotesi questa che sembrava sino a poco tempo irrealistica per la sua antieconomicità), implementazione di una manifattura additiva o di applicazioni di arricchimento delle percezioni sensoriali, lay-out degli uffici, gestione delle risorse in remoto, trasposizione delle attività svolte tradizionalmente in contesti fisici in contesti virtuali. Aree ed interventi che richiedono l’adozione di nuovi paradigmi. Non ricette miracolistiche, quindi, ma una metodologia che comporta di accettare la sfida una sorta di cultural disruption per evitare l’errore sul quale Drucker ha messo in guardia, di affrontare la turbolenza con vecchie logiche. Questo richiede non una visionary leadership ma una vigilant leadership, non per sminuire l’importanza di una vision ma per sottolineare come nell’attuale contesto sia importante focalizzarsi sulla realizzabilità.
La gestione del cambiamento richiede tempo, un tempo inversamente proporzionale alla dimensione dello shock e quanto subito in questi mesi può, per la dimensione e l’impatto, paradossalmente aiutare a modifiche che in altri periodi avrebbero comportato lassi temporali più lunghi. Una sfida questa che è propria di quanti si riconoscono, ed ambiscono a farsi riconoscere, nel ruolo di human capital enabler.
25 settembre 2020 – Direzione del Personale