Il miglior modo di predire il futuro è inventarlo
di Antonio Angioni
Va in soffitta la visione ciclica dell’economia, il presente è un continuo “up and down” in contesti perturbati. La difficoltà di fare impresa è acuita oggi da una cronica esiguità del tempo a disposizione. Tempo per capire, riflettere, progettare. Servirebbe una sorta di “contextual intelligence” per facilitare le decisioni. Senza dimenticare che il motore di ogni innovazione sono gli investimenti
Parliamo di: #Cultura d’impresa #Globalizzazione #Innovazione
“Il miglior modo di predire il futuro è inventarlo”. Abbiamo deciso di ricorrere a questa citazione dell’informatico americano Alan Kay per titolare il presente contributo, frutto dei confronti informali che nel corso di queste settimane di pausa estiva abbiamo avuto l’opportunità di coltivare con alcuni imprenditori con i quali collaboriamo da tempo.
Non ce ne vogliano gli amici se cercheremo di razionalizzare e di pubblicare alcune delle riflessioni emerse che ci sembrano degne di nota. Il sentiment predominante è di grande incertezza e preoccupazione, per i diversi segnali negativi, preannunciati dal Centro Studi di Confindustria, che si stanno addensando all’orizzonte, e per certi versi di scoramento per il contesto politico, che ha privato il Paese di una guida autorevole in una delicata fase di ripresa dopo la pandemia, complicata dai fattori geopolitici.
Cominciamo a sgombrare il campo da una tesi ricorrente: possiamo sicuramente archiviare la visione ciclica dell’economia alla quale eravamo abituati. Da anni siamo costretti, infatti, ad operare in contesti perturbati, in un continuo “up and down” a tal punto che qualcuno degli interlocutori ha definito la nostra, mutuando dal linguaggio borsistico, come un’epoca dominata non dall’alternarsi del toro e dell’orso ma dal cigno nero.
Limitiamoci, senza andare troppo indietro nel tempo, agli ultimi venti anni. Dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre del 2001 si sono susseguiti: i conflitti in Afghanistan e in Iraq, la crisi finanziaria negli Stati Uniti (che ha innestato una recessione di notevoli proporzioni), il disastro nucleare di Fukushima, la crisi del debito sovrano in Ue, la pandemia del Covid-19, la recentissima invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la crisi climatica, le difficoltà di reperimento della mano d’opera in alcuni settori, i costi dell’energia arrivati a livelli insostenibili, lo spettro del razionamento e di una recessione tecnica.
Inevitabile è stato poi il tema della globalizzazione. Ci si è interrogati se si sia di fronte ad un rallentamento o ad una profonda revisione, più di uno degli interpellati ha manifestato l’intenzione, dopo esperienze non entusiasmanti di delocalizzazione, di riportare la produzione in Italia o comunque in paesi più vicini e più affidabili. Che poi questo reshoring segni la fine della globalizzazione o, come forse sembra, un suo ridimensionamento con una sorta di friend-shoring, per effetto della divisione delle economie del globo in funzione politica, ci è sembrato un tema sul quale ogni valutazione rischia di essere prematura.
Nel corso dello stesso lasso temporale che abbiamo preso a riferimento, la tecnologia ha conosciuto uno sviluppo senza precedenti, con applicazioni che hanno modificato e stanno modificando velocemente e radicalmente il mercato, la produzione, l’organizzazione delle imprese, la relazione con i clienti, per citare solo alcuni degli aspetti oggetto delle nostre riflessioni. Non solo, ma come confermato da un recente confronto che abbiamo avuto a luglio con i nostri partner americani, nei prossimi dieci anni, il ritmo dell’innovazione tecnologica e delle sue applicazioni, aumenterà in forma esponenziale costringendo le imprese a rivedere e adattare la strategia e la value proposition per rimanere competitive.
Come argutamente notato da uno degli imprenditori del nostro panel informale, “noi rischiamo di combattere sempre l’ultima crisi e di arrivare sempre impreparati alla prossima”. Forse mai come oggi l’acronimo VUCA, mutuato dal linguaggio militare e rilanciato nel 1985 da Warren Bennis e Burt Nanus, ha una sua attualità. Ci troviamo infatti ad operare in un contesto in cui sono stati raggiunti livelli inusitati di volatilità (Volatility), di incertezza (Uncertainty), di complessità (Complexity) e di ambiguità (Ambiguity).
Nessuno si nasconde le difficoltà di fare impresa in un simile contesto, che impone la necessità di prendere coscienza della necessità di cambiare e di gestire il cambiamento ma con una particolarità rispetto al passato: l’esiguità del tempo a disposizione. Tutti gli interlocutori hanno riconosciuto di avere a disposizione meno tempo rispetto al passato, per: comprendere ed analizzare le varie forme di business disruption, elaborare appropriate strategie, identificare un nuovo posizionamento.
Si avverte oggi più che mai, per ottemperare pienamente al ruolo di imprenditore, l’esigenza di acquisire una sorta di contextual intelligence, da intendersi come la capacità di leggere (e discernere fra) alcuni macro fattori quali gli eventi internazionali, le politiche adottate dai governi, i trend demografici, le esigenze dei collaboratori, i nuovi fabbisogni sociali e i nuovi costumi, le ricadute delle nuove soluzioni tecnologiche.
Grazie a questa contextual intelligence l’imprenditore può decidere la direzione da prendere, coinvolgere e indirizzare i collaboratori, accelerare le scelte. Ma proprio sulle scelte da operare abbiamo registrato posizioni diverse, sicuramente influenzate dalle particolarità dei segmenti di mercato, dal livello di innovazione tecnologica, dall’esposizione internazionale.
Lungi dall’esprimere giudizi di valore, consideriamo legittime e rispettabilissime le diverse opinioni registrate, anche se questo non può esimerci dal fare alcune considerazioni. Stiamo vivendo una fase di cambiamenti irreversibili per cui di tutte le espressioni di cui si è fatto un largo uso, per non dire abuso, nel periodo pandemico ci sembra utile ricordare quella secondo cui: nulla sarà come prima.
Potrebbe rivelarsi pericolosamente illusoria la posizione di chi pensa che possa poi ricostituirsi una situazione quo ante perché espone al rischio di trovarsi marginalizzati, se non estromessi, dal mercato. Alle argomentazioni utilizzate a sostegno di questa tesi, spesso mutuate da alcuni trend sviluppatisi proprio con la pandemia (vedasi il ritorno dei negozi di prossimità versus la grande distribuzione), ci sembra utile contrapporre la lunga lista di aziende che, in tempi meno parossistici rispetto a quelli attuali, sono entrate in crisi irreversibili per l’ostinata resistenza a mantenere inalterato il proprio posizionamento.
Anche chi non intende subire o resistere ma è deciso ad affrontare la sfida del cambiamento non è indenne da alcune insidie. In primis la necessità di non sottovalutare la rilevanza degli investimenti per accelerare l’innovazione di prodotto e di processo. Parafrasando un’affermazione di Philip Kotler, per cui “l’unico vantaggio competitivo sostenibile è la capacità di apprendere e di imparare prima degli altri”, verrebbe da aggiungere “di innovare prima degli altri”. Non solo ma abbiamo spesso registrato fra i nostri interlocutori decisi ad affrontare la sfida, la difficoltà a tradurre rapidamente la strategia adottata, lamentando un gap nell’esecutività.
Decisiva a questo proposito si rivela la capacità di comunicare per coinvolgere i collaboratori a tutti i livelli, per ridurre la resistenza al cambiamento, per farli uscire dalla comfort zone, per stimolarne il contributo. Per quanto desueta, fa sempre riflettere la tesi di Charles Darwin secondo cui a sopravvivere non è la specie più forte o la più intelligente ma quella con maggiore predisposizione al cambiamento.
1 settembre 2022 – L’imprenditore