Diversity, equity, inclusion: costo o valore?
di Antonio Angioni
A volte questi temi possono essere visti come mode passeggere oppure come impegni ai quali soltanto le grandi imprese possono fare fronte. In realtà, prima di intraprendere qualsiasi azione, occorre fare chiarezza su un aspetto fondamentale: quanto in azienda le persone sono percepite come un asset tangibile al pari degli altri? Solo una risposta sincera a tale interrogativo porterà ad iniziative fruttuose.
La lingua inglese nella sua essenzialità si è sempre caratterizzata per la facilità di sintetizzare concetti complessi e articolati in pochi termini se non addirittura in acronimi, come nel caso di specie, dal momento che ormai si dà per acquisito l’uso nel linguaggio corrente dell’espressione DEI per circoscrivere tematiche rilevanti per la gestione.
Riteniamo utile affrontare il tema con alcune precisazioni terminologiche per definire in un’ottica aziendale non solo la portata e l’impatto rispettivamente della diversity, equity e inclusion, ma anche per dimostrare se abbia ancora senso investire tempo e risorse in questi temi soprattutto in una fase come quella che le aziende stanno affrontando, caratterizzata da una rilevante incertezza.
Partendo dalla diversity (diversità) è importante sottolineare come sia riduttivo immaginare che si intenda fare riferimento solo alle differenze di genere dal momento che è coinvolta la forza lavoro (workforce) nella sua generalità. Di conseguenza oltre alle differenze di genere, non più limitate oggi a uomini e donne ma comprensive anche delle persone non binarie, rilevano a questo proposito anche le differenze relative l’età, visto che nelle imprese convivono i baby boomers (1946-1964), la generazione X (1965-1980), la generazione dei Millenials (1981-1996), la generazione Z ( 1996…), le differenze etniche (dal momento che in Italia il 10% della forza lavoro pari a 2,4 milioni unità è composta da stranieri), religiose, di background culturale, le differenze relative le abilità fisiche (essendoci persone con diversi gradi di disabilità che possono e devono pure essere integrate).
Anche per quel che riguarda l’equity (equità) occorre fare una precisazione visto che va oltre l’equality (uguaglianza). Mentre l’uguaglianza implica trattare tutti nello stesso modo, l’equità riconosce che le persone partono da posizioni diverse e che è quindi necessario fornire opportunità differenziate per garantire che tutti possano raggiungere i medesimi obiettivi. Mentre per quel che riguarda l’inclusion (inclusione) si intende fare riferimento al processo finalizzato a creare un ambiente in cui tutte le persone, indipendentemente dalle loro differenze, si sentano accettate, valorizzate, sostenute, un ambiente nel quale le persone non sono solo presenti ma sono e si sentono parte integrante del team, hanno la possibilità di fornire il proprio contributo, di partecipare ai processi decisionali.
Nella nostra pluriennale esperienza al fianco delle aziende abbiamo registrato e continuiamo a registrare su questi temi le reazioni più disparate, che potrebbero sintetizzarsi in alcuni interrogativi che spesso ci sentiamo porre quali: “Se non espressamente richiesto da una normativa perché dovrei investire tempo e risorse su questi temi? Quali sono i tangibili benefici che l’azienda può ricavare? Si tratta della solita moda (riconducibile alla woke culture) destinata poi a passare? Quale è l’impegno che comporta? Non è forse un lusso che possono permettersi solo le grandi aziende?”.
Si tratta di interrogativi comprensibili e logici, di fronte ai quali noi preferiamo in prima battuta portare il confronto su un livello diverso, verificando quale è la percezione reale che si ha delle persone; senza farci condizionare dalle affermazioni di circostanza, da quanto riportato nella mission aziendale reperibile sul sito come anche sui manifesti che arredano gli ambienti aziendali. In altri termini, prima di entrare nei dettagli, è importante capire se in azienda le persone sono percepite come un costo o come un asset tangibile al pari degli altri.
È una metodologia che abbiamo affinato nel corso del tempo che ci consente di affiancare l’imprenditore e il top management in un itinerario di riflessione che vede i protagonisti partire da un atteggiamento iniziale problematico (unaware), diventare successivamente consapevoli (aware), per poi arrivare a rivedere le priorità (active) sino ad assumere il profilo di convinti assertori (advocate) del valore aggiunto creato e sperimentato attraverso gli investimenti realizzati.
In base alle esperienze realizzate in questi anni si registrano infatti: miglioramento delle performance aziendali, fidelizzazione e attrazione dei talenti, sviluppo di una cultura organizzativa positiva, maggiore soddisfazione dei clienti, incremento della reputazione aziendale, maggiore resilienza organizzativa.
Per quel che concerne il miglioramento delle performance aziendali numerose ricerche hanno dimostrato che la diversità favorisce l’innovazione e, di conseguenza, il miglioramento delle performance e dei risultati finanziari. Un team diversificato è in grado di affrontare i problemi in modo creativo e di proporre soluzioni varie ed efficaci. Non solo, un’azienda che promuove l’inclusione ha maggiore capacità di attrarre e di trattenere i talenti, i più giovani e qualificati cercano ambienti di lavoro in cui possano esprimersi liberamente e in cui la meritocrazia sia un valore fondamentale. Trattenere i talenti e le risorse chiave oltre a ridurre il turn over (che ha un costo, così come ha un costo il tempo per reperire risorse adeguate e competenti), favorisce l’engagement e la creazione una cultura aziendale positiva. Quando i collaboratori sentono di essere riconosciuti e valorizzati per le loro qualità, sono più propensi a contribuire, a impegnarsi e a sostenere l’organizzazione. La diversità stimola il pensiero critico e l’innovazione, che sono cruciali per risolvere problemi complessi e per mantenere un vantaggio competitivo sul mercato.
L’equità favorisce una cultura della meritocrazia, per cui le persone non vengono giudicate per la loro origine, identità di genere o età, ma per il valore che riescono a generare (value added), creando così un contesto nel quale le persone sono motivate a dare il meglio di sé.
L’engagement dei collaboratori ha un impatto sulla soddisfazione dei clienti non solo in termini di orientamento (customer centricity), ma anche come capacità di saper interpretare le esigenze e trasformarle in ulteriori opportunità di business e questo spiega, come confermato dalle ricerche sopramenzionate, la positività dei risultati economici e la crescita della reputazione. Una solida reputazione, la costruzione della quale richiede tempo e un impegno costante e coerente, diventa un elemento costitutivo del vantaggio competitivo dell’azienda, apprezzata sia dai clienti che dagli stakeholder.
Last but not least abbiamo notato come nelle aziende in cui si è investito nella diversity, equity ed inclusion finisca per svilupparsi una maggiore resilienza organizzativa, indispensabile non solo per affrontare le situazioni impreviste ma anche per affrontare i cambiamenti, con particolare riferimento a quelli imposti dalla digitalizzazione e dalle applicazioni dell’intelligenza artificiale (AI).
Non possiamo non completare queste riflessioni senza fare riferimento anche al come (how), alle soluzioni gestionali da adottare per conseguire i risultati illustrati. Si rende necessario promuovere una strategia non episodica attraverso cui facilitare la sensibilizzazione sui temi, una formazione funzionale alla creazione di una cultura organizzativa inclusiva, l’adozione di strumenti nuovi (per es. KPI per misurare l’evoluzione) come anche la rivisitazione e l’adattamento di strumenti esistenti (valutazione delle prestazioni, sistemi incentivanti, organizzazione del lavoro, welfare). Può essere di sicuro aiuto per gli standard offerti la recente normativa internazionale ISO 30415:2021 (Human resources Management Diversity and Inclusion), che offre interessanti spunti per disporre di un metodo adeguato.
Ci sia consentita un’ultima considerazione: la tendenza a ridimensionare gli effetti (ma anche gli eccessi e i parossismi della woke culture) potrebbe favorire la convinzione che presto tutta questa enfasi sui temi della diversity, equity e inclusion sia destinata a sgonfiarsi. Non si tratta di difendere parole d’ordine, si può benissimo ricorrere ad espressioni dal sapore meno ideologico ma che non alterano l’attenzione a temi rilevanti quando si pongono le persone al centro. Non a caso il top management della Walmart (peraltro la più grande azienda operante negli Stati Uniti con 340mila collaboratori) ha di recente sintetizzato che cosa intende e come declina la DEI: “Ogni decisione che nasce dal desiderio di favorire un senso di appartenenza, di favorire opportunità per tutti i collaboratori, per i clienti e fornitori, può essere un Walmart per tutti”. Parliamo quindi di costo o di valore?
Puoi leggere l’articolo su “L’imprenditore”.
27 gennaio 2025 – L’Imprenditore