Dal remote working allo smart working
di Antonio Angioni
È terminato, dopo oltre due anni, lo stato di emergenza proclamato per la pandemia da Covid-19. Molte aziende si stanno interrogando sul modello organizzativo da adottare. Diversi sono gli elementi da tenere in considerazione per la scelta, che non può avvenire senza coinvolgere i collaboratori. La cultura aziendale va ripensata, in un contesto caratterizzato sempre più da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità
Fra le varie espressioni che nel corso di questi due anni di pandemia sono state utilizzate dai numerosi analisti (più o meno improvvisati!), quella che sicuramente si sta rivelando la più veritiera è “niente tornerà come prima”, a conferma della complessità della business disruption creata dal Covid-19, senza dimenticare la gravissima variante geopolitica tuttora in corso. Ci vorranno anni per decodificare le conseguenze e i cambiamenti, anche se alcune tendenze stanno cominciando a chiarirsi.
Ci riferiamo in particolare all’organizzazione del lavoro, che ha subito e sta subendo non pochi cambiamenti. Dalla sera alla mattina milioni di persone, in Italia come nel resto del mondo, si sono trovate costrette a sperimentare una soluzione di emergenza, lavorando a distanza, sperimentando su vasta scala appunto il remote working, che inspiegabilmente è stato identificato come smart working.
In realtà nessuno ha potuto scegliere “quando, dove e come” lavorare, tre requisiti indispensabili per essere autorizzati ad utilizzare l’espressione smart working. Ma non essendo esperti di semantica non ci interessa addentrarci in questo dibattito relativo al successo di questa espressione, dibattito nel quale Umberto Eco avrebbe saputo dare una chiave interpretativa autorevole, mentre invece possiamo, sulla base di quanto registriamo nelle aziende clienti, tentare di avanzare alcune prime considerazioni.
Ci sembra intanto doveroso circoscrivere il perimetro perché questa soluzione:
- non è stata adottata, né avrebbe potuto esserlo, in tutti i settori merceologici, (essendo stata prevalentemente utilizzata nelle realtà dei servizi);
- non ha avuto, nell’ambito dello stesso settore merceologico, applicazioni omogenee (avendo interessato maggiormente i knowledge workers che peraltro avevano già cominciato a sperimentarla sia pure non in larga scala);
- mentre si è rivelata efficace per salvaguardare (se non incrementare in alcuni casi) la produttività, ha alimentato forme di ansietà e di stress fra gli addetti nonché di sottile discriminazione, come confermato da diverse ricerche;
- sta determinando non solo cambiamenti economici complessi (logistici, ambientali, immobiliari, di consumi, di costume, per citarne solo alcuni), ma anche nella gestione delle risorse.
Molte aziende si stanno interrogando in queste settimane di uscita, speriamo definitiva, dal contesto di emergenza, su quale modello organizzativo adottare. Se tornare tout court al modello pre-pandemia – mantenendo la soluzione adottata in questi due anni come riserva per far fonte ad altre varianti – o se fare tesoro di quanto sperimentato per impostare soluzioni nuove. Per esempio, adottando formule di alternanza di lavoro in presenza e di lavoro in remoto, secondo una calendarizzazione in funzione sia delle esigenze tecnico-organizzative che di quelle individuali.
Nelle realtà che stiamo assistendo in questa fase di riflessione, suggeriamo sempre, prima di fare delle scelte, di valutare tre fattori ossia:
- la rilevanza della presenza fisica delle persone per svolgere le attività;
- il livello delle interrelazioni;
- l’utilizzo di apparecchiature e/o di strumentazioni più o meno complesse.
L’applicazione di questa metodologia aiuta a definire il perimetro e a identificare la soluzione funzionale alla strategia, alla dimensione dell’azienda nonché alle professionalità esistenti. Nella scelta del modello non possono poi non essere coinvolti i collaboratori, che nella maggioranza dei casi da noi seguiti preferiscono un ricorso flessibile al remote working, coniugato con esigenze personali, anziché soluzioni rigide e definitive.
Non solo ma spesso nel corso di questo processo di ripensamento si arriva a rimettere in discussione lo stesso lay-out degli uffici, aprendosi l’opportunità di creare spazi che favoriscano l’incontro e la collaborazione fra le persone, lo scambio di idee, la creatività, dimensioni di cui si è maggiormente avvertita, in questi ultimi due anni, se non la mancanza almeno la valenza.
Ma il tema più complesso da affrontare riguarda l’effettiva volontà di affrontare un processo di cambiamento in termini di cultura aziendale e di stile gestionale. In un contesto di lavoro ibrido, dove ci siano collaboratori in presenza e collaboratori in remoto, anche se non in forma permanente, non è pensabile di mantenere lo status quo. Stiamo riscontrando come generazioni di imprenditori e di manager, formati al principio di Tom Peters del “management by wandering around”, si trovino in difficoltà a muoversi in tali contesti parzialmente virtuali.
Analizzando con maggiore attenzione si scopre che la resistenza al cambiamento è da mettersi in relazione alla difficoltà di:
- passare da una concezione del lavoro legato ancora al fattore tempo ad un’altra collegata ai risultati;
- riconoscere livelli di autonomia, ma anche di responsabilità, nel perseguimento degli obiettivi.
Appare evidente come ancor prima di affrontare scelte di organizzazione del lavoro, sia necessario ripensare la cultura aziendale, per creare un contesto di fiducia, un contesto inclusivo, un contesto dove sia valorizzata la relazione. Un impegno che si traduce nell’adozione di uno stile di leadership che senza venir meno alla sua essenza (da to lead indicare la direzione) sia capace di costituire un riferimento costante (da qui l’importanza di un continuo feedback) per i collaboratori in tempi di volatilità (volatility), di incertezza (uncertainty), di complessità (complexity), di ambiguità (ambiguity), appunto di VUCA, come si suole identificare tale contesto utilizzando nell’acronimo le iniziali.
Se invece ci si limitasse ad una scelta di soluzioni che prescindesse da questo itinerario, si finirebbe a lungo andare per minare la stessa competitività dell’impresa, che è fatta dalle persone. Si fa un continuo e giusto riferimento al ROE (return on equity) per misurare il successo di un’impresa dimenticando che la stessa espressione ROE potrebbe essere diversamente declinata (return on engagement) per misurare l’impegno positivo delle persone altrettanto importante per il successo dell’impresa.
5 aprile 2022 – L’Imprenditore